Venezia80 - “Origin”, il dramma incalzante di Ava DuVernay sulle strutture dell'oppressione globale

La regista di "When They See Us" prende spunto dal libro storico di Isabel Wilkerson per spiegare il razzismo come un risvolto del sistema delle caste, tracciando collegamenti tra l'India, la Germania nazista e gli Stati Uniti.

16 / 9 / 2023

Nel 1498 Vasco da Gama raggiunse il Kerala, sulla costa occidentale dell'attuale India. I portoghesi arrivarono dapprima come commercianti, ma ben presto decisero di consolidare il loro dominio sulla regione per assicurarsi il monopolio del redditizio commercio delle spezie. Gli scritti dei primi coloni del Kerala offrono un resoconto storico del sistema dei "varna", una gerarchia endogamica ed ereditaria sancita dai principali testi religiosi indù. Il sistema varna si basava sull'ereditarietà delle occupazioni da genitore a figlio, per cui ruoli umili e ritualmente inquinanti, che implicavano la gestione di rifiuti umani e cadaveri, erano svolti da coloro che si trovavano in fondo alla gerarchia. Nel 1516, Duarte Barbosa, commerciante e interprete portoghese, definì questo sistema "casta", che significa razza o stirpe.

Isabel Wilkerson nel 2020 scrive “Caste: the origin of our discontents” in cui mescolando storia, sociologia e una serie di altri reportage, racconta la genesi della disuguaglianza americana. Offre così un nuovo quadro trasformativo attraverso il quale comprendere l'identità e l'ingiustizia in America. Invece di basarsi su concetti come il razzismo - che Wilkerson considera troppo ristretti - sostiene la necessità di comprendere la gerarchia sociale degli Stati Uniti come un sistema di caste: un metodo profondamente radicato ma artificiale di categorizzazione delle persone in base alla nascita.

In "Origin", Ava DuVernay intreccia una narrazione lunga secoli e continenti intorno alle idee della scrittrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson andando oltre al concetto che il razzismo da solo possa spiegare l'iniquità della società umana.

Trasformare un libro popolare in un film è un campo minato. Se si è troppo fedeli, si rischia di creare un pasticcio eccessivo. Se si è troppo infedeli, si rischia di alienare il proprio pubblico. Ma bisogna fare ancora più attenzione quando si adatta un libro di non fiction in un film narrativo.

Come tradurre il processo - la ricerca, le lunghe e solitarie ore passate a riempire uno schermo dopo l'altro con la prosa, l'invisibile fascia di dubbi che può circondare uno scrittore nei momenti più difficili - in termini che funzionino visivamente sullo schermo, che attirino il pubblico in una modalità di lavoro che è intensamente privata?
In questo caso, il risultato è un film a tratti un po’ confusionario, in cui l'autrice del libro diventa la protagonista del film e ci conduce in un giro del mondo di atrocità storiche.

Ci sono, inoltre, troppi personaggi che si mescolano nell’intenzione di avvalorare le tesi della protagonista con monologhi a tratti sgraziati, c'è un'occasionale oscillazione in territori predicatori che si tuffano in ovvie lezioni di storia della supremazia bianca che, per quanto significative non è chiaro a chi vogliano rivolgersi.

Forse un documentario avrebbe permesso di concentrarsi più direttamente sulle questioni in gioco. Invece, questo film è drammatizzato focalizzandosi sul viaggio personale ed emotivo di Wilkerson. Aunjanue Ellis offre un'interpretazione equilibrata e carismatica della stessa Wilkerson, che è sposata con un uomo bianco, Brett (Jon Bernthal) e vive lo strazio intimo di separarsi dalla madre per affidarla ad una casa di cura. Mentre scrive la sua opera Wilkerson vive un dolore emotivo: perde la madre, la cugina (Niecy Nash-Betts) e, cosa più dolorosa di tutte, il marito Brett.

Ava DuVernay ha fatto la storia a Venezia, diventando la prima regista afroamericana a partecipare in concorso del festival. “Origin” però non riesce sempre a dare una chiara fotografia sul marciume antropologico che collega la schiavitù e la segregazione in America alla condizione dei Dalit in India e all'Olocausto.

È chiaro l’intento di divulgare concetti complessi in maniera accessibile, suscitando i necessari coinvolgimento e identificazione. Mancano però le sfumature, manca una buona dose di materialismo storico marxista e si paragonano tre diversi drammi dell’umanità in maniera sommaria e sempre a grandi linee creando stonature evidenti e soprattutto si tende a malcelare un grande tema, antico quasi come la storia dell’uomo, ossia il problema di classe.

Ad esempio le conversazioni di Isabel sulle sue idee si svolgono in manifestazioni della torre d'avorio: cocktail party di lusso, cerimonie di premiazione e uffici editoriali arredati con gusto. Osservare il suo personaggio muoversi in questi ambienti e interagire con editori bianchi adulatori introduce una tensione vecchia quanto le conversazioni sul razzismo negli Stati Uniti: il braccio di ferro tra lo status socioeconomico e il colore della pelle come fattore dominante nella formazione dell’identità. Oltre a questo i dialoghi sono sempre contornati da un velo di saccenza, dove la ripetizione pedante della ricerca di Wilkerson crea ulteriore distacco tra autore e spettatore e non aiuta nemmeno l'esasperante colonna sonora di Kris Bowers, non tanto in sottofondo quanto incessantemente invadente.

Sicuramente Origin ha un messaggio straordinario, ossia che in un mondo che isola e discrimina, colpevolizzando la vittima, è necessario andare al nocciolo del problema, dice anche che il razzismo sia ormai endemico e che ripeterlo non è mai abbastanza.